un caffè con… Renato Baciocchi

Ospite della diretta Facebook promossa dall’Ufficio per lo Sviluppo Sostenibile dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” l’Ing. Renato Baciocchi, Professore Ordinario di Ingegneria Sanitaria-Ambientale presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Ingegneria Informatica, e componente del gruppo di lavoro sul cambiamenti climatici all’interno della RUS – Rete delle Università per lo sviluppo sostenibile.
Ad intervistarlo il dott. Alessandro Cinque, collaboratore dell’Ufficio di Ateneo diretto dall’Arch. Stefano Bocchino

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Un "Caffè virtuale" con…Renato BACIOCCHI

Un confronto di 15 minuti con il Prof. Renato BACIOCCHI sui cambiamenti climatici

Pubblicato da Unitorvergata Sostenibile su Lunedì 4 maggio 2020

Sta crescendo l’interesse dell’opinione pubblica sui cambiamenti climatici. In che cosa consistono, e quali sono i loro effetti? Può darci qualche delucidazione in merito, e se magari può sfatarci qualche falso mito?

Come si evince dal significato del termine, si tratta di una modifica in corso di alcuni parametri climatici. Il fattore principale è la temperatura del pianeta, ma esistono anche altri indicatori come il livello degli oceani, il pH delle acque degli oceani, così come vi sono altri indicatori legati ad esempio all’estensione della superficie dei ghiacciai. Sono tutti indicatori che dall’inizio dell’era industriale ormai, ci danno una sensazione che tutto si sta modificando, ed in quale direzione.

Abbiamo un aumento della temperatura media del pianeta con gli ultimi dati che riportano valori di circa 1.1° C rispetto al periodo pre-industriale. Osserviamo una progressiva acidificazione degli oceani, dovuta al fatto che il 23% della CO2 emessa finisce negli oceani. Questo fenomeno limita almeno in parte l’accumulo di CO2 ma l’aspetto negativo è che va a modificare gli equilibri geochimici molto delicati degli oceani. Per non parlare dell’aumento della velocità con cui i ghiacciai si sciolgono, sia artici, sia antartici, così come i ghiacciai presenti sulle nostre montagne. Dati recenti parlano di circa 300 miliardi di tonnellate l’anno di ghiacci persi negli ultimi 10 anni.

Che ci sia stato un cambiamento di questi fattori è indubitabile: quello su cui alcuni ancora discutono è la causa. È riconosciuto dal 99% del mondo scientifico che la causa di queste variazioni sia imputabile all’uomo e in particolare all’emissione dei cosiddetti gas serra, accusati di diminuire la capacità del pianeta di riflettere nello spazio il calore ricevuto dalla radiazione solare. Questa capacità è legata alla presenza di una certa concentrazione di gas serra che normalmente ci sono e che servono al nostro pianeta: la concentrazione di CO2 che avevamo nel periodo pre-industriale era quella giusta per garantire una temperatura media accettabile; se non ci fosse stata, il nostro pianeta non sarebbe a 10-15 gradi di temperatura media, ma sarebbe un pianeta probabilmente a temperature medie sotto lo zero e quindi inospitale. Il ciclo naturale del carbonio, che garantiva una concentrazione costante di CO2, è stato modificato dall’uomo nel giro di pochi decenni. Abbiamo strappato il carbonio fossile, che era ormai seppellito nel sottosuolo e l’abbiamo reinserito nel ciclo naturale del carbonio, portando all’aumento della concentrazione di CO2, che oggi viaggia intorno alle 410 parti per milione, quando nel periodo pre-industriale era sotto alle 300.

Oltre alla CO2, tra i gas serra, troviamo anche il metano o il protossido di azoto: anche se hanno concentrazioni molto minori nel pianeta – ad esempio il metano si trova intorno alle 2000 parti per miliardo, mentre il protossido di azoto alle 300 ppb – hanno un potenziale serra molto maggiore rispettivamente di ben 20 e 300 volte superiore rispetto alla CO2. Questo fa sì che anche in piccole concentrazioni, queste sostanze possano influire fortemente sui cambiamenti climatici.

Rispetto alle emissioni di cui abbiamo parlato, che ricerche sta portando avanti all’interno dell’Ateneo?

Partirei da un discorso più generale, ovvero da quelle che possono essere le azioni che dovranno essere messe in atto per poter portare alla riduzione d’intensità di carbonio nella nostra economia. Abbiamo ancora un sistema economico fortemente basato sull’utilizzo di combustibili fossili, e questo è il tema: annualmente emettiamo 43 miliardi di tonnellate di CO2 su scala globale, in Italia siamo circa sui 0,4-0,5 miliardi circa di tonnellate di CO2 all’anno. Per ridurle ci sono varie possibilità.

Potremo non usare più i combustibili fossili, e quindi sostituire, non solo nella produzione di energia ma in tutto il ciclo industriale, il carbonio proveniente da fonti fossili con altre fonti rinnovabili; e questo è un modo per convertire il nostro sistema energetico gradualmente da uno basato sul fossile ad uno basato sulle fonti rinnovabili come il solare, l’idroelettrico, le biomasse, l’eolico ed altri. Attualmente in Italia siamo sul 18-20% d’impatto del rinnovabile sulla produzione di energia, e questo va aumentato, è una possibilità.

Secondo aspetto, l’efficientamento energetico: riuscire cioè a produrre ed utilizzare energia in maniera più efficace.

La terza possibilità è quella di continuare ad utilizzare i fossili – personalmente credo che finché ci sarà una goccia di petrolio sul pianeta, difficilmente qualcuno rinuncerà a bruciarla – ma farlo in maniera sostenibile, il che significa evitare che la CO2 prodotta dalla combustione possa essere immessa nell’atmosfera, ma venga invece “catturata” ed immagazzinata: questo è il principio alla base del carbon capture and storage.  In questa direzione noi abbiamo un’attività di ricerca che punta a catturare la CO2 ed immagazzinarla sotto forma di minerali come il carbonato di calcio, mediante reazione con materiali alcalini quali minerali ampiamente disponibili sulla crosta terrestre o residui di diverse attività industriali: in quest’ottica si fissa il carbonio in maniera irreversibile su scale di ere geologiche, e si evita che la CO2 vada in atmosfera.

Un’altra opzione potrebbe essere di non catturare la CO2 dalle sorgenti di emissione come le centrali idroelettriche, ma catturarla direttamente dall’aria. Questa è una cosa su cui ancora non abbiamo iniziato a lavorare ma sulla quale a livello internazionale si comincia a ragionare. Sta diventando sempre più concreta quindi l’idea di poter recuperare la CO2 dall’aria, soprattutto alla luce del fatto che la concentrazione di CO2 in atmosfera ci sta letteralmente scappando di mano, nonostante gli accordi a livello internazionale che hanno promesso riduzioni delle emissioni e fissato obiettivi ambiziosi di riduzione dell’aumento di temperatura, senza però pervenire a risultati concreti. Nonostante le crisi economiche che un po’ hanno aiutato ad abbattere le emissioni di CO2, specialmente in paesi in via di deindustrializzazione come l’Italia, pochi sono stati gli sforzi reali di ridurre le emissioni.

Quindi non è detto che in un futuro non molto lontano quando forse avremo 700-1000 ppm di CO2 nell’atmosfera, non saremo obbligati a recuperarla dall’atmosfera stessa, e quindi avere delle tecnologie pronte e sostenibili, ma anche sopportabili dal punto di vista economico.  Posso assicurare che oggi la cattura della CO2 dall’aria è una tecnologia industriale: ci sono aziende, tra cui una in Svizzera, che già producono tali impianti di recupero per un utilizzo a scopo alimentare, come per esempio nell’industria delle bibite gassate. Questa è una prospettiva molto interessante.

È dunque rilevante capire quello che si fa in termini di ricerca, ma è fondamentale anche conoscere quali sono le iniziative che le diverse università portano avanti a livello nazionale per combattere i cambiamenti climatici e allo stesso tempo per mitigare le emissioni.

L’università, ed in particolar modo la nostra rete nazionale, può diventare una sorta di laboratorio dove testare approcci quanto più possibile innovativi per la valutazione delle emissioni di CO2 e per la individuazione di azioni di mitigazione o eventualmente di adattamento ai cambiamenti climatici.

Il nostro Ateneo fa parte della Rete delle Università per lo Sviluppo Sostenibile, che opera attraverso una serie di gruppi di lavoro che affrontano i diversi temi della sostenibilità, uno dei quali è legato ai cambiamenti climatici. In quest’ambito la RUS ha sviluppato delle linee guida per la verifica delle emissioni di CO2 degli atenei tramite la Carbon footprint. Questo è stato uno sforzo non banale perché nonostante il riconoscimento internazionale delle metodologie di rilevazione, non è stato facile calarlo in realtà particolari come quelle delle università.

Il nostro Ateneo si è già attrezzato per effettuare una valutazione dell’impronta di carbonio secondo le linee guida della RUS, e posso già dire che abbiamo alcuni dati preliminari che ci dicono una cosa molto importante: la nostra Università è peculiare perché sita in una collocazione geografica particolare, fuori dal centro della città, dove le emissioni legate alla mobilità di docenti e studenti pesano in maniera considerevole rispetto ad altri atenei, anche romani, dove la maggior parte dell’utenza raggiunge le strutture con i mezzi pubblici. Per gli altri aspetti, gran parte delle nostre emissioni derivano dal consumo di energia elettrica e dal consumo di gas naturale per il riscaldamento; mentre per una parte molto più piccola ma non meno rilevante, abbiamo la mobilità di docenti in missione per convegni e gli studenti in mobilità Erasmus europea ed extraeuropea, dove basta prendere un aereo per far schizzare verso l’alto le nostre emissioni di CO2. Ovviamente la mobilità è un fattore rilevante in questo computo complessivo.

Questo è il primo step: capire, conoscere valutare; il secondo step sarà individuare delle azioni di mitigazione. Posso preannunciare che le azioni da attuare possono prendere spunto dalle caratteristiche del nostro Ateneo: essendo il nostro un campus con ampie aree verdi, è ovvio che possiamo immaginare progetti di realizzazione di campi fotovoltaici, non solo sulle superfici verdi, ma anche sui tetti degli edifici, che potrebbero in parte consentirci di autoprodurre la nostra energia tutta rinnovabile. Il nostro Ufficio per lo Sviluppo Sostenibile in parte si è già attrezzato, non tanto producendo energia, ma acquistando energia certificata “verde”, ovvero prodotta da fonti rinnovabili. Questo ovviamente può essere già, seppur parzialmente, un primo passo per ridurre le nostre missioni.

Un altro aspetto potrebbe essere quello dell’utilizzo delle aree verdi per una sorta di “riforestazione”, e quindi utilizzare la crescita delle piante come carbon-sink: questo è un punto interessante, anche se temo che nonostante la superficie del nostro campus sia piuttosto cospicua, in realtà poi andando a fare i conti la percentuale di CO2 che riusciremmo a recuperare purtroppo non sarebbe molto significativa.

Tra azioni alternative da attuare, eventualmente si potrebbe sviluppare una pista ciclabile che permetta agli studenti di muoversi all’interno del campus con mezzi che non inquinano?

Assolutamente sì. Purtroppo in buona parte quando dobbiamo spostarci tra due facoltà, ad esempio da Ingegneria a Scienze, lo facciamo in auto e ciò non ha senso; così come non ha senso venire in macchina all’università.

In questa direzione il nostro Ateneo si è speso in questi mesi precedenti all’emergenza COVID, perché nonostante la riduzione dell’offerta di trasporto pubblico da parte di ATAC che collega il nostro campus all’hub dell’Anagnina, aveva inserito e previsto un servizio navetta autofinanziato in maniera tale da favorire la mobilità degli studenti: quindi il nostro Ateneo ha già fatto delle azioni comunque significative per venire incontro agli studenti in primis, ma come secondo effetto anche riducendo la quota parte degli studenti che vengono al campus con mezzi propri e le emissioni correlate. Tenete conto che abbiamo ogni mattina circa 8000 spostamenti su Tor Vergata, di cui 5 mila solo con autovetture.

Infine una duplice domanda.
Quali conseguenze avrà il coronavirus sull’ambiente se i trasporti pubblici non potranno garantire lo stesso numero di passeggeri e ci sarà il ritorno ai mezzi privati? Vanificheremo tutti gli sforzi fatti in questi ultimi anni?
Cosa devono fare gli studenti per contribuire attivamente alla risoluzione del cambiamento climatico, o almeno alla riduzione delle emissioni?

Gli studenti possono evitare che il COVID condizioni eccessivamente in questa fase i loro comportamenti. Quindi posto che è fondamentale – e secondo me il Governo, la Regione ed il Comune non possono perdere questa occasione – che gli organi preposti debbano garantire la sicurezza con regole chiare per i trasporti, a quel punto lo studente dovrebbe non cedere al timore – e questo lo dobbiamo fare anche noi – ma continuare e se possibile anzi iniziare, a prendere il mezzo pubblico più di quanto si facesse prima. Gli studenti di Tor Vergata per una serie di motivi vengono in Ateneo prevalentemente in autovettura, e questo ovviamente per quanto riguarda le emissioni legate alla mobilità è un fatto negativo.

Quindi non dobbiamo scoraggiarci nonostante il COVID, ma dobbiamo invece continuare ad utilizzare se possibile il mezzo pubblico, magari integrandolo con la mobilità ciclabile, sostenibile. Per esempio questo è un tema su cui deve venirci incontro ovviamente anche Roma Capitale nell’incrementare il numero di piste ciclabili; ma effettivamente, soprattutto per ragazzi giovani, questa è un’opzione da aumentare e favorire. Gli studenti possono agire su quelli che sono i loro comportamenti individuali. Ognuno fa una piccola cosa: se ognuno di noi la fa nella direzione giusta, alla fine il risultato complessivo diventa sensibilmente interessante.

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