Il Bilancio della COP29: Tra Risultati Insufficienti e Prospettive Future

La COP 29, svoltasi a Baku (Azerbaijan), dall’ 11 al 24 novembre, ha avuto come tema centrale il New Collective Quantified Goal (NCQG), ovvero l’obiettivo di incrementare i finanziamenti globali per il clima. L’intento era quello di superare i 100 miliardi di dollari annui fissati a Copenaghen nel 2009, cifra effettivamente raggiunta solo nel 2022. Tuttavia, i negoziati si sono concentrati sulla questione della responsabilità dei finanziamenti, con i Paesi del Sud Globale che chiedevano un contributo maggiore da parte delle nazioni industrializzate, storicamente principali responsabili per la crisi climatica in atto. Queste, a loro volta, hanno richiesto ai paesi definiti in via di sviluppo un impegno attivo maggiore verso la decarbonizzazione. La mancata presenza di leader influenti come Joe Biden e Ursula von der Leyen ha ulteriormente acuito le tensioni tra le principali potenze globali.

Proprio nei primi giorni della conferenza, il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha espresso critiche nei confronti dell’Occidente, accusandolo di chiedere un’accelerazione nella transizione energetica da un lato, ma dall’altro continuare a comprare gas azero. Questo tema ha coinvolto direttamente anche la nostra Repubblica, che, secondo il Climate Change Performance Index, è tra i Paesi dell’UE con i peggiori risultati in termini di performance climatica. A tal proposito, il 13 novembre la presidente del Consiglio italiano ha espresso il suo sostegno non solo alle energie rinnovabili, ma anche alle fonti tradizionali come il gas. Meloni ha anche parlato della fusione nucleare, una tecnologia per la quale sono necessari ancora molti anni prima che possa arrivare alla commercializzazione. Attualmente l’Italia è uno dei maggiori acquirenti di gas proveniente dall’Azerbaijan, tanto che il 16 novembre le è stato assegnato il premio ironico Fossil of the Day, destinato al Paese più legato ai combustibili fossili. 

Il G77 (gruppo di Paesi definiti in via di sviluppo fondato nel 1964 e attualmente composto da 134 Stati) ha proposto un finanziamento di 1.300 miliardi di dollari, con fondi provenienti principalmente da investitori pubblici, per garantire maggiore stabilità. Al contrario, i paesi industrializzati hanno proposto un mix di fonti di finanziamento, sia pubbliche che private, più suscettibili alle fluttuazioni del mercato. Proprio in relazione alla rappresentanza degli interessi all’interno della COP, è emerso che i Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico sono stati significativamente sottorappresentati rispetto agli interessi delle industrie fossili. Infatti, sebbene l’influenza delle lobby degli idrocarburi sia diminuita rispetto al passato, il numero dei loro delegati è comunque rimasto superiore a quello dell’insieme delle delegazioni dei Paesi più colpiti dagli effetti del riscaldamento globale. 

In generale, per tutta la durata dell’evento, le proteste sono state pesantemente limitate dalle restrizioni imposte dal regime autoritario dell’Azerbaijan, che ha consentito agli attivisti soltanto forme di dissenso limitate, ad esempio il divieto di esprimere il proprio pensiero in forma esplicita ma soltanto con dei mugugni. Anche il ruolo della scienza è apparso notevolmente marginalizzato, tanto che il padiglione dell’IPCC, l’organismo scientifico di riferimento sul cambiamento climatico, è stato realizzato in dimensioni più ridotte rispetto a quello più ampio dell’OPEC, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. A tal proposito, al centro del dibattito del quinto giorno è emersa la questione di chi esercita influenza nei processi decisionali e con quale peso. A rilanciare il tema è stata una lettera firmata da autorevoli esperti, come Mr. Simon Stiell (Segretario Esecutivo dell’UNFCCC – United Nations Framework Convention on Climate Change) e António Guterres (Segretario Generale delle Nazioni Unite), che hanno proposto una riforma profonda delle COP. Tra le richieste principali figurava l’introduzione di criteri più rigorosi per scegliere i Paesi ospitanti, escludendo quelli che non supportano l’abbandono dei combustibili fossili e la transizione energetica. Inoltre, è emerso il cosiddetto “problema Grassi”, una questione tecnica legata alle discrepanze tra i modelli di misurazione globali e nazionali, che rende più complessa la valutazione precisa degli effetti del cambiamento climatico su aree specifiche. 

L’Unione Europea ha evitato di definire impegni finanziari concreti fino all’ultimo; il capo negoziatore, Wopke Hoekstra, ha posto l’accento sulla necessità di ampliare la base dei donatori. Tuttavia, l’idea di coinvolgere potenze come Cina, Arabia Saudita e Qatar è sembrata poco realistica, poiché l’UE non ha attualmente la forza politica per influenzare radicalmente l’equilibrio geopolitico. Questa fragilità strategica si è rivelata particolarmente evidente nelle relazioni con i paesi in via di sviluppo. Alcuni di questi, infatti, non sono più solo vittime degli effetti del cambiamento climatico, ma si sono ormai affermati come attori economici di primo piano, spesso in grado di competere con le economie industrializzate. Un esempio emblematico è rappresentato dalla Cina (formalmente definita ancora come paese in via di sviluppo), che pur essendo la principale responsabile delle emissioni di CO2 nel 2021 (con il 33% delle emissioni globali, superando la somma di Stati Uniti 12,5%, Unione Europea 7,3%, India 7% e Russia 5%), nel 2023 è stata l’unica grande economia a registrare una riduzione delle emissioni nel secondo trimestre, mantenendo un livello stabile nel terzo.  

La COP29 si è conclusa nella notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre, lasciando un bilancio contrastante. Il documento finale prevede un impegno annuale di 300 miliardi di dollari entro il 2035, un passo significativo ma ben lontano dalla cifra di 1.300 miliardi raccomandata da esperti come Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern. Tale somma, considerata più adeguata dai Paesi maggiormente colpiti dalla crisi climatica, rimane purtroppo una proposta priva di forza giuridica. Invece, i 300 miliardi, seppur vincolanti dal punto di vista legale, rischiano di essere insufficienti per affrontare l’emergenza globale. I fondi previsti derivano da una “varietà di fonti”, formula che tranquillizza i Paesi industrializzati, ma suscita preoccupazioni nelle nazioni più vulnerabili e in via di sviluppo. 

Tra le novità, è stata lanciata anche la “Roadmap da Baku a Belém”, con l’obiettivo ambizioso di mobilitare 1.300 miliardi di dollari. Questo piano punta a incrementare i finanziamenti per i Paesi in via di sviluppo, sostenendo percorsi di crescita a basse emissioni entro il 2035. Tuttavia, tale iniziativa è stata giudicata inadeguata, non rispettando appieno gli impegni presi nell’Accordo di Parigi. 

Il principale insuccesso della COP29 si ravvisa nell’incapacità dei paesi di riconoscere che i finanziamenti per il clima non costituiscono un costo, ma un investimento strategico per il futuro del pianeta. La transizione verso un modello sostenibile richiede un approccio globale e un impegno collettivo e coordinato da parte di tutte le nazioni. In assenza di un’azione universale, ogni sforzo rischia di dimostrarsi inadeguato e inefficace rispetto alla gravità delle sfide attuali. 

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